Di largo muso

Roberto Beccantini13 gennaio 2024

Inter padrona: del gioco, degli episodi, dei gol (alla fine, 5-1). Non c’è stata partita, se non nella ripresa, per rari scorci, a risultato in ghiaccio. Subito al comando, la squadra di Inzaghi: rigore per mani-comio di Gagliardini (attaccato a LauToro, ma il braccio «alza» il volume), trasformato da Calhanoglu. Poi il capitano, di tap-in, su cross radente di Dimarco.

Una mezza spalla in offside toglie a Pessina la rete dell’1-2: anche qui, naturalmente, farina della Video assistenza. «Mancano», a Palladino, i Colpani (fiscale, il giallo-lampo inflittogli da Rapuano) e i Ciurria della scorsa stagione. Travi diventate pagliuzze.

Costretto dallo scarto a osare, il Monza s’impicca nel secondo tempo al contropiede degli avversari: Calha su assist di Thuram e, dopo i penalty di Pessina (contatto Darmian-Dany Mota) e Lau-Toro (tamponamento Akpa Akpro-Frattesi), il figlio di Lilian a pasta ormai buttata (Dan Peterson) e Caldirola tutto giù per terra.
I cambi hanno contribuito a ribadire la differenza. Sul mio podio: Mkhitaryan, il turco e Martinez, balzato a quota 18. Nel Monza, non uno che mi abbia eccitato (a cominciare da Gagliardini stopper): nemmeno Valentin Carboni.

Vi segnalo, sullo 0-3, il gesto tecnico di Alessandro Sorrentino, classe 2002, vice di Di Gregorio: un balzo felino a deviare il colpo di testa di Pavard. Il vento della «manita» se l’è portato via, ma fidatevi: è stata una gran bella parata. Sul serio.

Franz

Roberto Beccantini9 gennaio 2024

Per Paolo Sorrentino, «uno fa finta che il mondo era meglio prima, ma non è vero, è un alibi, eri tu che eri meglio prima». Non sempre. Non nel suo caso. Era meglio lui, di gran lunga. Franz Beckenbauer. Ci arrivo in ritardo per cumulo di ricordi. Gli devo il baule zeppo di emozioni che ha accompagnato i miei vent’anni, una secolo fa, quando le formazioni erano filastrocche e lo sport adesione, prima che evasione.

Il Kaiser. L’imperatore. Campione di tutto – di Germania, d’Europa, del Mondo – con il Bayern e la Nazionale. E del Mondo, anche da ct, nel ‘90, a muro di Berlino appena caduto. Grande Bayern, quel Bayern. Fra il 1974 e il 1976, la sua tripletta chiuse il triplete dell’Ajax, quando il calcio era tutto un formicolio di idee, di scintille. I lancieri di Cruijff, quelli del calcio totale. I panzer del Beck, quelli del calcio tradizionale. Ma che calcio, ragazzi. Beckenbauer. Prima centravanti, poi mediano, poi libero. Nei tempi in cui un austriaco, Rappan, aveva forgiato il catenaccio, e gli italiani lo avevano verniciato, decorato, da Foni al paron Rocco e al mago Herrera. Libero, sì, ma di rottura filosofica. Fu un’idea, non un’ideologia. Sopire e troncare, ma anche rifornire e attaccare. Non più un uomo sottratto al centrocampo, cosa che mandava in bestia Rivera, ma un difensore aggiunto.

L’eleganza della classe. La classe dell’eleganza. Dei nostri, colui che più lo ha avvicinato mi è parso Scirea. Più ancora di Franco Baresi. Il Kaiser aveva un non so che di Nureyev. Testa alta, piedi inguantati, due radar agli occhi. La foto che porteremo sempre dentro è però il braccio al collo di Messico ‘70. La spalla lussata e la maglia (finita in buonissime mani…) lacero-confusa. Eppure, anche lì, Sua altezza. Come se non fosse successo nulla. O nulla stesse per succedere. Invece.

Giocare alla Beckenbauer. Ecco: sembra una lapide, è il massimo.

Il gesto, più che il testo

Roberto Beccantini7 gennaio 2024

Dalla abbuffata di coppa al desco ingolfato del campionato, in cui il buffet non era più offerto dalle riserve ma difeso dai titolari. Difeso come ai vecchi tempi, quando la provincia era arrocco e Rocco. Ma, a Salerno, soprattutto Viani. Allegri, visto che di allenatori dobbiamo parlare, è caduto nella trappola di Inzaghi, con il quale, al Milan, furono più spine che rose. Che tipo di trappola: catenaccione e transizioni di disturbo. Su una di queste, con lancio dritto per dritto tipo Frosinone, è scattata come un flash l’azione che ha sbloccato l’equilibrio, sigillata da uno splendido interno sinistro di Maggiore. Era il 39’. Era la solita storia.

Madama? Ombrellate di possesso palla sotto la pioggia, un paio di blitz di Yildiz, difficile da innescare in quella selva «oscura», le parabole per Danilo e Bremer, sventate dall’armatura di Fazio. Assenti pesanti su entrambi fronti, da Dia a Chiesa, Juventus più di destra (Weah) che di sinistra (Kostic), con Nicolussi Caviglia «guida» e Vlahovic imbottigliato. Il tecnico può molto nella fase difensiva, meno a livello offensivo. Qui tocca ai piedi dei condomini, al saper lanciare e al saper dribblare. Spero di aver reso l’idea.

Nella ripresa, al 52’, la svolta. Il secondo giallo, corretto, a Maggiore. In dieci, Pippo ha chiesto persino a Candreva di scalare. Non che la Vecchia sprigionasse chissà cosa. Ma a furia di ruminare calcio, ha trovato il pari con Iling-Junior, il peggiore di giovedì, subentrato a un Kostic da 4. E dopo scosse varie, risolte da Szczesny, al minuto 90 Vlahovic, fin lì più fodero che lama, ha incornato in maniera imperiosa un cross di Danilo. Più o meno come allo Stirpe sul cross di McKennie. Gol da centravanti d’antan, «a testa alta»: un omaggio al gesto e non al testo. La Salernitana è ultima in classifica. Per vincere all’Arechi l’Inter fu costretta a sdoganare Lau-Toro (4-0, tutto suo). Segno che i «giuocatori» contano ancora.